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18 settembre 2012
Lavoro i figli non seguono le impronte
Un numero: 721mila. Come le imprese chiamate a confr0ntarsi (nei prossimi anni) sul tema del passaggio generazionale. Immaginare che oltre 360mila di queste chiudano per mancanza di eredi pronti a rilevare l'attività di famiglia equivale a un'ipotesi di "suicidio collettivo" di una generazione - quella dei Millennials (coloro i quali negli anni duemila si sono affacciati al mondo del lavoro) - da più parti etichettata come vittima di un meccanismo infernale che l'ha esclusa dai processi produttivi.
L'ANALISI - Un conto salatissimo che la Storia le sta imponendo, con tutto quello che ne consegue anche in termini migratori. Se un recente studio ha confermato una diaspora silenziosa di migliaia di giovani italiani verso le economie più avanzate che (forse) offrono maggiori occasioni di soddisfazione professionale, colpisce come chi sia "baciato" dalla fortuna di avere un lavoro in famiglia ritenga invece non funzionale alla sua esistenza continuare i sacrifici dei propri genitori. Un'elaborazione realizzata per Corriere.it dalla Cgia di Mestre rileva come il 51,8% degli imprenditori intervistati (su un panel di quasi mille attori coinvolti) ritiene che i propri figli non siano interessati a proseguire l'attività paterna/materna. Di più: sono soprattutto quelle del Sud e del centro Italia ad essere maggiormente interessate dal fenomeno, ma anche la straordinaria vitalità imprenditoriale del Nord-est ne uscirebbe intaccata.
LE RAGIONI - Al primo posto tra le motivazioni alla base di questa fuga dal ritratto "iper-familista" dell'Italia dipinto come preponderante dai sociologi di varia estrazione c'è la Grande Crisi che sta scompaginando i comportamenti individuali. Denotando un cambiamento sociale di portata inimmaginabile: i giovani "figli di papà" - utilizzando un'accezione negativa ma che sembra fuoriuscire dalla bocca dei loro genitori scoraggiati - sarebbero mal disposti a "sgobbare" nel capannone/laboratorio/fabbrica di famiglia come i loro genitori. Al diavolo le conquiste (soprattutto in termini di consumi) delle famiglie, le loro possibilità di spesa cresciute a dismisura dagli anni rampanti del boom economico.
IL TITOLO DI STUDIO - Ora la parola chiave è una sorta di riflessione esistenziale sul rapporto costi/benefici: «Mi conviene lavorare dieci ore al giorno come mio padre che fa il fabbro? Sono convinto che la mia unica affermazione di vita sia quella di portare avanti il ristorante di famiglia?». Sempre più spesso la risposta è no. Qualche volta la declinazione individuale si confronta con una volontà (legittima) di studiare e specializzarsi in un altro ambito. Per carità, sono le cosiddette aspirazioni. Tanto che il corollario - certificato anche dalla Cgia - è che le nuove generazioni imprenditoriali (se lo volessero) sono sempre più qualificate in termini di studio: il 70% dei figli è almeno diplomato, il 15% possiede lauree e master. Eppure - al netto di una migliore preparazione teorica - sul piano pratico si moltiplicano le chiusure di aziende che non riescono a gestire il passaggio generazionale. Come se si fosse inceppato il meccanismo di trasmissione delle competenze. Amplificato da una sempre maggiore perdita di redditività (retaggio della globalizzazione che amplia sì i mercati di sbocco, ma restituisce una competizione anni fa impensabile). Così anche i genitori sembrano rassegnarsi. Traduzione della frase: «Preferisco che i miei figli facciano altro». Con il rischio di una sfiducia generalizzata verso ciò che ci aspetta e verso le nostre conquiste economiche e di vita, che i figli danno per scontato, ma chissà per quanto
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